L’ESPERIENZA DEI CAMPI DI CONCENTRAMENTO DA UN PUNTO DI VISTA PSICOLOGICO
I campi di concentramento rappresentano sicuramente uno degli avvenimenti più drammatici della storia dell’uomo.
Si tratta di un tema che è stato trattato in numerose opere, come film e libri. Tra questi troviamo il libro “uno psicologo nei lager”, scritto dallo psicologo Viktor Frankl. L’autore racconta la sua esperienza personale nei campi di concentramento e, al tempo stesso, cerca di analizzare i comportamenti e la vita nei lager da un punto di vista psicologico.
Il delirio di grazia e la disperazione
Una prima cosa evidenziata da Frankl riguarda il cosiddetto “delirio di grazia”. Infatti, nonostante gli internati avessero già sentito parlare di quello che avveniva nei campi di concentramento, inizialmente sembravano sviluppare l’illusione che la loro situazione non sarebbe stata così tragica. Speravano, ad esempio, nei campi avrebbero potuto avere posizione privilegiata, come quella dei prigionieri che li avevano accolti e che avevano un aspetto florido.
Queste illusioni scomparivano abbastanza velocemente per lasciare il posto allo shock, alla disperazione, ai pensieri ed ai tentativi di suicidio.
Successivamente si sviluppava un sentimento di apatia e di insensibilità progressiva che portava le persone ad essere distaccate anche davanti a circostanze emotivamente molto cariche. Secondo Frankl si trattava di un meccanismo di difesa che consentiva di concentrarsi quasi esclusivamente sulla conservazione della vita. Inoltre, era anche il risultato di alcune condizioni fisiche, come ad esempio la fame e la mancanza di sonno.
Le forme di interiorizzazione nei campi di concentramento
Un altro elemento molto interessante è il fatto che, anche se gli internati erano focalizzati prevalentemente su bisogni “primitivi” -come il cibo-, erano comunque presenti delle forme di interiorizzazione molto elevate.
Tra queste troviamo:
- la rappresentazione delle persone amate (“Nella situazione esterna più misera che si possa immaginare…, quando la sola cosa che si possa fare è sopportare il dolore con dirittura, sopportarlo a testa alta, ebbene, anche allora, l’uomo può realizzarsi in una contemplazione amorosa, nella contemplazione dell’immagine spirituale della persona amata, che porta in sé.“)
- la sensibilità verso la natura (“Chi avesse visto i nostri volti trasfigurati dall’incanto, durante il viaggio in treno da Auschwitz a un Lager bavarese, quando scorgemmo, dalle sbarre di un vagone cellulare, i monti di Salisburgo, con le cime rilucenti nel tramonto, non avrebbe mai creduto che erano volti di uomini che consideravano praticamente conclusa la propria vita.“)
- l’umorismo, che sembrava creare un distacco dalla situazione ed elevare gli uomini al di sopra della loro condizione (“Il mio compagno era chirurgo; era stato assistente d’un reparto ospedaliero. Così una volta cercai di farlo ridere, dipingendo come sarebbe rimasto legato alle abitudini contratte nel Lager, anche dopo il suo ritorno a casa e al lavoro consueto. Un’abitudine del cantiere, per esempio, era che quando il dirigente dei lavori si avvicinava per l’ispezione, il sorvegliante cercasse di accelerare i tempi, stimolando gli operai con il consueto grido: “Movimento, movimento!”. Così dissi al mio compagno: una volta, quando sarai di nuovo in sala operatoria e dovrai eseguire una lunga operazione allo stomaco, d’un tratto entrerà di corsa l’inserviente, annunciando con il suo: “Movimento, movimento!” l’arrivo del primario: “Arriva il capo!“).
Trovare uno scopo per sopravvivere ai campi di concentramento
Dall’esperienza di Viktor Frankl sembra che la lotta per la sopravvivenza intrapresa dagli internati dipendeva, oltre che dai fenomeni precedentemente descritti, anche e soprattutto dalla capacità delle persone di trovare uno scopo futuro che giustificasse la voglia di sopravvivere.
Questo obiettivo variava da persona a persona. Poteva riguardare, ad esempio, l’ambito familiare -rivedere i propri cari- o quello professionale -finire un lavoro importante-. Purtroppo, però, anche coloro che riuscirono a trovare uno scopo futuro e a sopravvivere, molto spesso si dovettero scontrare con la delusione di non poter raggiungere il traguardo agognato -si pensi a tutti coloro che scoprirono che i propri familiari erano morti- e con l’amarezza di non sentirsi mai pienamente compresi dal resto della società.
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Bibliografia
Frankl V. E. (2009). Uno psicologo nei lager. Ares, Milano.