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Erica Tinelli

Psicologa a Roma, Viterbo e Online

ASSASSINI: LE REAZIONI PSICOLOGICHE DEI FAMILIARI

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Purtroppo capita spesso di ascoltare in televisione o di leggere sui giornali notizie relative ad assassini.

Spesso quello che stupisce di questi episodi non è soltanto l’efferatezza o la futilità delle motivazioni -ad esempio la noia, un banale litigio, la voglia di vedere che effetto fa, la difficoltà ad accettare la fine di una relazione-, ma anche la reazione dei familiari degli assassini. Non è raro, infatti, sentire dichiarazioni come: “è una brava persona”, “non ci sono mai stati segnali che ci potessero far pensare una cosa del genere”, “è stata colpa dell’effetto della droga”, “non era in sè quando ha fatto quelle cose “. Queste affermazioni spesso stupiscono e provocano anche rabbia perché sembrano voler sminuire la gravità dell’evento o privare la persona della sua responsabilità.

In realtà, occorre tenere in considerazione il fatto che scoprire di avere un parente assassino è un evento devastante per chiunque. Le affermazioni che ascoltiamo, solitamente, sono il frutto di questa scoperta dolorosissima e delle relative reazioni psicologiche difensive. Mastronardi e De Luca, ad esempio, descrivono queste reazioni in riferimento ai familiari dei serial killer, ma molto probabilmente si tratta di processi simili a quelli che si possono innescare nei familiari di assassini di altro tipo.

Le reazioni dei genitori di assassini

Secondo gli autori i genitori possono elaborare l’evento attraverso varie fasi:

  • incredulità e negazione, nella quale si convincono che c’è stato un errore di persona. Probabilmente questa fase non si manifesta quando le prove sono molto evidenti o quando c’è addirittura una confessione da parte dell’assassino.
  • spostamento della responsabilità su terzi, come altre persone che hanno influenzato il soggetto oppure sostanze come droghe, alcol
  • spostamento della colpa su se stessi, nella quale i genitori si sentono responsabili di essere stati dei cattivi genitori e di non essersi mai accorti di nulla
  • senso di fallimento come genitore, che implica anche il dover gradualmente imparare a convivere con l’idea che il figlio è un “mostro”

Le reazioni dei figli

Anche i figli, quando scoprono di avere genitori assassini vivono la notizia come un trauma, che prevede varie fasi:

  • incredulità, senso di abbandono e di impotenza
  • rabbia verso il genitore che lo priva di una famiglia normale e vergogna per quello che è stato fatto, tanto che in qualche modo vorrebbe pagarne anche lui le conseguenze
  • recupero parziale della figura genitoriale con meccanismi difensivi. Rabbia e vergogna vengono metabolizzate e, dopo un po’ di tempo, il figlio tende a recuperare parzialmente la figura del genitore arrivando a convincersi che quando ha compiuto queste azioni era sicuramente in uno stato alterato. È più sopportabile, infatti, l’idea di avere un genitore malato piuttosto che “mostro”

Anche i familiari degli assassini, quindi, in un certo senso sono delle vere e proprie vittime che devono imparare ad elaborare adeguatamente questo trauma, evitando il più possibile che questo possa avere effetti distruttivi sulla propria identità.

Dott.ssa Erica Tinelli

3884462095

erica.tinelli@hotmail.it

Bibliografia

Mastronardi V. M., De Luca R. (2011). I serial killer. Il volto segreto degli assassini seriali:  chi sono e cosa pensano? Come e perché uccidono? La riabilitazione è possibile? Newton Compton Editori, Roma.

PERCHE’ IN SITUAZIONI DI EMERGENZA LE PERSONE NON VENGONO AIUTATE?

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Il famoso caso di una donna in emergenza che non venne aiutata, Kitty Genovese

Il caso di Kitty Genovese è la storia di una donna in una situazione di emergenza che non venne aiutata. Nel 1964 a New York la donna fu vittima di un’aggressione che durò più di mezz’ora. In base alle ricostruzioni effettuate dalla polizia, emerse che ci furono 38 testimoni dell’aggressione. Nessuno, però, intervenne per aiutare la donna che morì a causa delle numerose coltellate ricevute.

Episodi di questo tipo sembrerebbero eventi eccezionali ed inspiegabili, ma in realtà non sono rari. La cronaca riporta frequentemente casi di persone in pericolo che non ricevono l’aiuto necessario.

Perché in alcune situazioni di emergenza non si aiutano le persone?

L’effetto testimone

Una possibile spiegazione deriva dagli studi di Darley e Latanè, secondo i quali la variabile chiave è rappresentata dal numero di persone presenti: all’aumentare del numero di testimoni di eventi critici -aggressioni, furti, situazioni di malessere-, diminuisce la probabilità che qualcuno intervenga -effetto testimone-. Di conseguenza, quando ci sono molte persone, è probabile che non interverrà nessuno ad aiutare chi ha bisogno. In tali situazioni, secondo gli autori, si verifica il fenomeno della “diffusione della responsabilità”, per il quale ogni persona pensa che saranno gli altri a gestire la situazione. Quando, invece, la persona è sola si sente maggiormente responsabile ed interviene con maggiore frequenza perché sa che solo lei può aiutare chi è in difficoltà.

Le variabili chiave

Il fenomeno dell’effetto testimone ha destato grande attenzione ed è stato oggetto di numerosi studi che hanno consentito di chiarirne le caratteristiche. È stato evidenziato, ad esempio, che ci sono delle situazioni nelle quali l’effetto sembra essere ridotto, come nelle situazioni estreme come i furti violenti o i tentativi di stupro, accompagnati da pianti ed urla delle vittime. Tali circostanze richiedono la collaborazione ed il supporto reciproco e, quindi, ogni persona ritiene indispensabile il proprio contributo ed anche quello degli altri.

L’effetto testimone, inoltre, è meno presente se le persone si conoscono, probabilmente perché ognuno si sente rassicurato dall’aspettativa di ricevere supporto da persone con le quali ha una certa confidenza e che sono familiari.

Un’altra variabile molto importante sembra essere il sesso dei testimoni: quando gli spettatori sono tutti uomini l’effetto testimone è ridotto rispetto a quando ci sono uomini e donne e quando ci sono tutte donne. Probabilmente questo è dovuto al fatto che gli uomini solitamente possiedono una maggiore forza fisica e, quindi, percepiscono di poter gestire in maniera più efficace situazioni pericolose ed eventuali scontri fisici con possibili aggressori.

Infine, un elemento molto interessante nella letteratura del settore è il fatto che negli studi più recenti la tendenza a non aiutare chi è in pericolo risulta più attenuata rispetto al passato. Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che la conoscenza e la sensibilizzazione nei confronti di questo meccanismo rende le persone più consapevoli e meno passive.

Dott.ssa Erica Tinelli

3884462095

erica.tinelli@hotmail.it

Bibliografia

Darley J. M., Latanè B. (1968). Bystander intervention in emergencies: diffusion of responsibility. Journal Of Personality And Social Psychology, 8 (4), 377-383.

Fischer P., Krueger J., Kainbacher M., et al. (2011). The bystander-effect: A meta-analytic review on bystander intervention in dangerous and non-dangerous emergencies. Psychological Bulletin, 137 (4), 517-537.