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Erica Tinelli

Psicologa a Roma, Viterbo e Online

LA SCHIZOFRENIA E GLI ALTRI DISTURBI PSICOTICI

Cosa sono i disturbi psicotici?

La schizofrenia e gli altri disturbi psicotici -come il disturbo psicotico breve, il disturbo delirante, il disturbo schizofreniforme- sono dei disturbi piuttosto seri e potenzialmente molto invalidanti. Si caratterizzano, infatti, per l’assenza di un adeguato esame di realtà e per la grave alterazione dei processi di percezione, di pensiero, di comportamento.

I sintomi tipici dei disturbi psicotici sono:

  • i deliri, che sono convinzioni errate che la persona sostiene con determinazione
  • le allucinazioni, che si manifestano quando la persona percepisce qualcosa che non c’è
  • il pensiero e l’eloquio disorganizzati, ossia caratterizzati dal venir meno dei nessi associativi tra i vari argomenti o tra domande e risposte
  • la catatonia, che è una grave alterazione del comportamento psicomotorio che prevede ridotta reattività all’ambiente. Può prevedere immobilismo, mutismo, immotivata agitazione, movimenti stereotipati e senza alcun fine, mantenimento di posture contro la gravità, ripetizione insensata di gesti o parole.
  • l’appiattimento affettivo, cioè l’assenza o la riduzione delle emozioni
  • la carenza di comunicazione verbale (alogia)
  • la perdita di piacere (anedonia)
  • la riduzione delle attività orientate ad un obiettivo (abulia)

Quali possono essere le conseguenze di un disturbo psicotico?

Un disturbo psicotico può compromettere la capacità di lavorare, di studiare, di relazionarsi agli altri e, a volte, anche di svolgere attività quotidiane di cura di sé e della casa. Ad esempio, una persona che è convinta che gli altri la vogliono uccidere, familiari inclusi, (delirio di persecuzione) potrebbe arrivare a non uscire più dalla sua stanza e a passare tutto il suo tempo a rimuginare su questa cosa, dimenticandosi di tutto il resto.

Il livello di compromissione dipende dalla gravità del disturbo che, a sua volta, dipende molto da quando viene fatta la diagnosi e da quando viene iniziato il trattamento.

Diagnosi e trattamento, infatti, dovrebbero essere quanto più precoci possibile per ottenere esiti migliori.

Il trattamento dei disturbi psicotici

Il trattamento dei disturbi psicotici solitamente prevede un’integrazione tra terapia farmacologica e psicoterapia che consentono di contenere i sintomi invalidanti e di aiutare la persona a migliorare la qualità della propria vita.

La sola terapia farmacologica di solito non è sufficiente per superare o per gestire efficacemente il problema. È fondamentale anche un percorso di psicoterapia che aiuti la persona a diventare consapevole del problema, a sviluppare comportamenti più funzionali, a gestire le situazioni di stress che possono contribuire all’esasperazione o alla ricomparsa dei sintomi, a definire progetti di studio, lavoro, relazioni.

Dott.ssa Erica Tinelli

3884462095

erica.tinelli@hotmail.it

Per approfondire

Biondi M. (a cura di) (2014). DSM-5. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali.  Raffaello Cortina Editore, Milano.

https://salute.regione.emilia-romagna.it/normativa-e-documentazione/linee-di-indirizzo/archivio-documenti-tecnici/linee-guida/raccomandazioni-regionali-esordio-psicotico-2016

LA PEGGIORE FANTASIA

Che cos’è?

La peggiore fantasia è una tecnica sviluppata da Giorgio Nardone per il trattamento di alcune specifiche problematiche, come gli attacchi di panico e le fobie. Rappresenta una delle principali tecniche del trattamento di queste patologie secondo l’approccio della terapia breve strategica.

Come funziona la peggiore fantasia?

Si chiede alla persona di ritagliarsi ogni giorno mezz’ora di tempo per portare alla mente tutte le peggiori fantasie in merito alle proprie paure, sforzandosi di provare ansia. Ad esempio, se la persona ha paura di allontanarsi da casa da sola per timore di sentirsi male, le si chiede di immaginare proprio questo scenario e di calarsi volontariamente in tutte le sue paure peggiori.

La tecnica, quindi, va in una direzione opposta a quella ricercata dalle persone che, invece, provano a rassicurarsi, a dirsi che andrà tutto bene, che non c’è motivo di essere preoccupati e ansiosi.

La peggiore fantasia si basa sul principio per il quale “la paura guardata in faccia si trasforma in coraggio, la paura evitata diventa timor-panico”, principio confermato anche dalle neuroscienze.

Qual è l’efficacia della tecnica?

Secondo le ricerche che sono state condotte dal Centro di Terapia Strategica di Arezzo, la terapia breve strategica ha un tasso di efficacia del 95% per quanto riguarda la risoluzione dei disturbi fobici e ansiosi, tra i quali rientrano gli attacchi di panico. 

I risultati, inoltre, solitamente vengono raggiunti in tempi brevi. Infatti, il trattamento completo in media richiede 7 sedute, ma i primi miglioramenti significativi, in genere, si manifestano prima.

La tecnica, quindi, è molto efficace, anche se bisogna considerare che l’intervento non prevede solo l’applicazione della tecnica della peggiore fantasia, ma di altre tecniche specifiche per ogni caso. La peggiore fantasia, però, in genere è la tecnica principale.

E se la peggiore fantasia non funziona?

Di solito la peggiore fantasia non funziona o funziona in modo limitato quando:

-viene applicata al caso sbagliato, ad esempio a persone che non soffrono di panico, ma di altre problematiche. A me per esempio a volte arrivano persone che leggendo i libri hanno provato ad applicare in autonomia la tecnica che non ha funzionato perché si trattava di persone che soffrivano di angoscia più che di panico. L’angoscia richiede un trattamento diverso.

-non viene applicata in maniera rigorosa per un tempo adeguato

-ci sono altri meccanismi di mantenimento del problema che sono molto potenti e che richiedono di essere analizzati e gestiti efficacemente.

Per questi motivi, di solito è fondamentale la valutazione e l’accompagnamento di un professionista.

Dott.ssa Erica Tinelli

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erica.tinelli@hotmail.it

Per approfondire

Nardone G., Salvini A. (a cura di) (2013). Dizionario internazionale di psicoterapia. Garzanti, Milano.

Nardone G. (2016). La terapia degli attacchi di panico. Ponte alle Grazie, Milano.

Nardone G. (1993). Paura, panico, fobie. Ponte alle Grazie, Milano.

Nardone G. (2003). Non c’è notte che non veda il giorno. Ponte alle Grazie, Milano.

IL LEGAME TRA OSSESSIONI E COMPULSIONI

Nel disturbo ossessivo-compulsivo le compulsioni vengono messe in atto con l’obiettivo di ridurre l’ansia ed il disagio che deriva dalle ossessioni.

Ad esempio, una persona ossessionata dalla paura di essersi contaminata può fare dei lavaggi compulsivi per contenere la paura dello sporco e delle infezioni.

Il legame realistico tra ossessioni e compulsioni

In molti casi tra ossessioni e compulsioni esiste un legame realistico e logico, ma le compulsioni sono chiaramente eccessive e sproporzionate, arrivando, in un certo senso, a perdere la loro ragionevolezza.

Ad esempio, se una persona teme di essersi sporcata, è ragionevole che si lavi. Non è ragionevole, però, che lo faccia per ore oppure che lo faccia più e più volte.

Se una persona teme di non aver spento la luce o di non aver chiuso la macchina è ragionevole che vada a controllare. E’ sufficiente, però, che lo faccia una sola volta.

È proprio la tendenza a ripetere le compulsioni più e più volte uno degli elementi essenziali che differenzia questi comportamenti rituali da azioni perfettamente normali e sane.

C’è sempre un legame realistico tra ossessioni e compulsioni?

No. In molti casi non esiste alcun legame apparentemente razionale.

Pensiamo, ad esempio, a chi si sente costretto a compiere specifici movimenti del corpo prima di uscire di casa per evitare di avere incidenti. Oppure pensiamo a chi deve ripetere delle parole considerate magiche perché altrimenti teme che potrebbe succedere qualcosa di terribile ai propri familiari.

Ci sono, poi, persone che si sentono obbligate a vestirsi in determinati modi (ad esempio usando solo alcuni colori o alcuni specifici capi di abbigliamento) per evitare che succeda qualcosa di brutto o per fare in modo che avvenga qualcosa di bello.

Le compulsioni riducono l’ansia, ma…solo in parte

Le compulsioni servono per cercare di eliminare o di ridurre l’ansia ed il malessere derivanti da pensieri, impulsi o immagini ossessive. Tali rituali, però, non sono mai completamente rassicuranti e per questo si ripetono svariate volte. Nella migliore delle ipotesi riescono ad alleviare il disagio solo per un breve periodo di tempo. Successivamente, però, la persona viene nuovamente travolta dalle ossessioni e dal bisogno di eseguire le compulsioni. Il circolo vizioso è apparentemente senza fine. 

Dott.ssa Erica Tinelli

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erica-tinelli@hotmail.it

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IL COPIONE DELLA CROCEROSSINA

Come si manifesta il copione della crocerossina?

La crocerossina è una persona che aiuta gli altri in modo esasperato ed eccessivo, mettendo da parte le proprie esigenze ed i propri bisogni. Per questo può apparire anche molto trascurata: è così tanto assorbita dalla cura dell’altro, da spendere tutte le sue energie ed il suo tempo in questo compito. Tuttavia, questo di solito non le provoca un grande disagio perché si tratta di un qualcosa che la appaga.

Alla base di questo copione comportamentale, infatti, vi è il piacere di sentirsi non solo utile, ma addirittura indispensabile ed insostituibile per qualcuno che ha problemi e che è percepito come bisognoso di accudimento. Questo piacere è preponderante rispetto alla fatica del ruolo.

La crocerossina, quindi, è portata a legarsi a persone con difficoltà e con problemi da risolvere. Può trattarsi di qualcuno con seri problemi fisici, di qualcuno che è uscito da poco da relazioni che l’hanno devastato, di persone con problemi economici, lavorativi, familiari, di tossicodipendenza … o anche semplicemente di qualcuno che è -o appare- fragile.

La crocerossina non è necessariamente una donna; il copione può riguardare anche gli uomini.

Quale trappola nasconde questo copione?

Il ruolo della crocerossina si esplica nell’aiuto. Le relazioni che instaura si basano su una dinamica di continuo supporto al bisognoso. Quando la persona accudita risolve i suoi problemi o guarisce dai suoi malesseri, di solito, la relazione finisce. Viene meno, infatti, l’elemento essenziale sul quale si era basato il rapporto.

Il “malato” è ora una persona indipendente e la crocerossina non è più indispensabile. Questo le può provocare un grande malessere e smarrimento derivante dall’idea per la quale “io ti ho aiutato, tu mi devi amare”.

Con il tempo, solitamente succede che la crocerossina torna a rifugiarsi nel ruolo che ricopre al meglio, quello di salvatrice di qualcuno che sparirà non appena starà bene. Una condanna destinata a ripetersi.

Come uscirne?

Essere condotta a capire, ma soprattutto a sentire emotivamente, la disfunzionalità del copione irrigidito e degli esiti che produce, può essere d’aiuto. La crocerossina, infatti, gradualmente, può sviluppare reazioni avversive nei confronti di un modello relazionale che per lei è connotato dal piacere. Non deve considerare, quindi, solo il piacere dell’essere indispensabile, ma le conseguenze che questo comporterà.

La crocerossina, inoltre, dovrà essere guidata anche a diluire l’eccesso di disponibilità verso gli altri, sempre in modo graduale e congruente alle sue caratteristiche per aggirare la resistenza al cambiamento.

Come avviene per qualsiasi copione irrigidito, anche la crocerossina dovrà imparare ad interpretare copioni relazionali diversi. Questo non deve essere fatto nell’ottica di sopprimere completamente il copione disfunzionale e di sradicare la personalità, ma con l’obiettivo di aggiungere delle varianti congruenti che permettono di rendersi più flessibili. Un copione comportamentale, infatti, diventa patologico e provoca sofferenza solo quando è irrigidito e portato all’eccesso.

Dott.ssa Erica Tinelli

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Per approfondire

Muriana E., Verbitz T. (2021). Le relazioni dipendenti. Quando l’altruismo diventa patologico. Alpes Italia, Roma.

Nardone G. (2010). Gli errori delle donne (in amore). Ponte alle Grazie, Milano.

PERCEZIONI E BENESSERE

Un famoso esperimento sulle percezioni

Nel 1947 Bruner e Goodman condussero un esperimento molto importante relativo alle percezioni. Mostrarono a dei bambini di diversa estrazione sociale delle monete e diedero loro il compito di stimarne la grandezza. Emerse che i bambini poveri, rispetto a quelli più ricchi, sovrastimavano la grandezza delle monete, probabilmente perché per loro si trattava di un oggetto importante.

Questo studio evidenziò che la percezione non è un processo oggettivo ed universale, ma è influenzato dalle motivazioni, dai bisogni e dalle caratteristiche delle persone. Di conseguenza, ognuno di noi può percepire diversamente una stessa cosa. Se è presente questa diversità nella percezione di elementi specifici, come la grandezza di un oggetto, solitamente è ancora maggiore la variabilità individuale nel modo di percepire stimoli molto più complessi e potenzialmente ambigui, come le caratteristiche di un evento, il comportamento di una persona o il suo carattere.

Percezioni e benessere

Il modo in cui interpretiamo le cose ha un impatto sulle nostre reazioni, a livello di emozioni e di comportamenti. In altre parole, il modo in cui percepiamo quello che ci circonda influenza il nostro benessere che, pertanto, viene compromesso quando sviluppiamo una modalità percettiva disfunzionale e rigida.

Ad esempio, se una persona sviluppa la percezione di non essere apprezzata dagli altri o addirittura di essere oggetto di derisione, probabilmente sperimenterà uno stato d’animo negativo e potrebbe essere portata a isolarsi o ad aggredire gli altri. Questo è il risultato di un processo che potrebbe essere partito da premesse sbagliate o disfunzionali. Quello che per la persona che si sente rifiutata è una critica, per la persona che l’ha fatta potrebbe essere un consiglio. Così come un atteggiamento sfuggente non è necessariamente indice di rabbia e desiderio di allontanare l’altro; potrebbe essere la conseguenza di un momento di tristezza o di difficoltà personale che non riguarda il rapporto con gli altri.

Cambiare

Ciò che osserviamo può essere interpretato in tanti modi diversi che possono influenzare il nostro benessere. Non si tratta di stabilire quali modalità sono corrette e quali sbagliate (anche perché è una distinzione arbitraria), ma di imparare ad utilizzare delle modalità più funzionali ed adattive. Ad esempio, una persona che deve spesso parlare in pubblico ed ogni volta viene travolta dall’ansia, non ha bisogno di chiedersi se è corretto avere il panico. Ha bisogno di superare il problema percependo la situazione come non minacciosa e, di conseguenza, reagendo diversamente.

Le proprie percezioni possono essere cambiate. Spesso il cambiamento più rapido ed efficace è quello che deriva dalle esperienze che in un percorso terapeutico possono essere guidate e create dal professionista.

È possibile arrivare a percepire come innocue le situazioni che incutono terrore. Si può percepire ciò che mette ansia come qualcosa che si è in grado di affrontare nel migliore dei modi. È possibile imparare a percepire gli ostacoli come opportunità di crescita. E così via.

Cambiando le modalità percettive disfunzionali si può costruire il benessere.

Dott.ssa Erica Tinelli

3884462095

erica.tinelli@hotmail.it

Bibliografia

Bruner J. S. e Goodman C. C. (1947) Value and need as organizing factors in perception. Journalof Abnormal Social Psychology, 42, 33-44.